Crociera invernale 2021 – racconto di Lorena
Il racconto di Lorena – da Bari a Tropea
—- Pietro ha un sorriso aperto e rassicurante quando mi apre il portone del Marina di Bari. Non ci conosciamo, ci siamo sentiti solo al telefono, brevemente. È un uomo alto, grande; anche il suo fisico è rassicurante e mi dà un senso di protezione. Ricambio il suo saluto con un sorriso sincero, mi nasce spontaneo. E dire che fino a poco prima ero tutt’altro che tranquilla; mi sto imbarcando (mai espressione fu più azzeccata) in un’avventura inedita: trascorrere due settimane con persone che non conosco, in una barca che non conosco, per attraversare mari che non conosco. Ma ormai non ci penso più, sono in ballo e non ho intenzione di tornare sui miei passi.
Aspettando Raffaele, io e Pietro ci concediamo una breve sosta gastronomica e mi piace il fatto che ami i dolci e apprezzi il buon cibo. Una delle tante cose che scopriremo di avere in comune.
Raffaele è di Napoli ed è in ritardo. Non so se le due cose siano collegate, certo è che lui è proprio napoletano nell’anima; con la sua spontaneità e purezza d’animo, è una di quelle persone a cui non puoi che voler bene da subito e a cui perdoneresti qualsiasi cosa, compresa l’orribile musica neomelodica (*) con cui ci sveglia prima dell’alba, la difficoltà a cui ci costringe quando dobbiamo decriptare la sua smaccata irresistibile cadenza, le sue sveglie puntate alle 3.30 di notte, in anticipo rispetto ai programmi. ( * in verità il repertorio di Raffaele comprendeva anche Pino Daniele, NCCP, Eugenio Bennato, Tullio De Piscopo, insomma “anche” il meglio della canzone napoletana e non solo e ovviamente Lorena quando dice “orribile” non si riferisce a questa.)
Passeggiamo per Bari e a chi ci dovesse osservare senza sapere chi siamo, sembreremmo tre amici di vecchia data che si guardano intorno curiosi e allegri. Bari ci regala colori e scorci che sanno di sud in modo inequivocabile. Del meridione, che ho così profondamente inciso nel cuore, riconosco la genuinità e l’indolenza, il sacro che si intreccia col profano, quel suo essere sontuoso e trasandato insieme. Ma Bari è una meteora, ben presto rimpiazzata da quella che diventerà la nostra casa, Thien Hau, un Sun Odyssey 45.2 che ha moltissime affinità con un’altra barca che ho molto amato e perso: il doppio timone, la cucina murata a sinistra, la cabina di poppa uguale a quella dove ho trascorso molte notti, in un’altra vita. È normale, quindi, che io mi senta a mio agio, lì dentro; ma non è solo questo, è anche perché è una barca vissuta, trasuda le ore che il suo armatore ci ha trascorso (e che ci racconta con gli occhi accesi di pura gioia), attrezzata com’è di tutto l’occorrente e anche di più.
Dal momento in cui Thien Hau ci accoglie, nulla segue più i tempi e i modi della vita comune: la cronologia non ha più alcun senso, i giorni si confondono, le abitudini cambiano, le ore assumono significati nuovi.
Ricordo una partenza di notte, al buio, e l’uscita dal porto di Brindisi con le luci che si riflettono nell’acqua. Siamo da soli, noi tre, accompagnati dal rumore del motore e dell’acqua solcata dolcemente dalla prua di Thien Hau, con il segno della croce di Raffaele che si raccomanda al suo dio. Il mio, invece, è il mare: lo venero e lo ringrazio per come mi accoglie – ancora – e mi abbraccia – di nuovo – con quella confidenza e intimità che ho con lui da sempre e che vibrano sotto pelle, naturalmente.
Ricordo cibo mangiato in modo frugale, in pozzetto o al timone, mentre navighiamo per ore e ore. Thè caldo custodito in un thermos salvifico. Un panino col tonno e pomodoro, preparato in anticipo e conservato in un sacchetto, ognuno il suo, con i nostri nomi: Pietro, Raff, Lore.
Ricordo il profumo del caffè di Raffaele che mi sveglia prima della sveglia.
E Pietro che mi racconta i suoi anni ’70: quanta vita nelle sue parole, che intensità nei suoi ricordi. La stessa con cui condivide la musica che ama, e che amo anch’io (ormai Raffaele ascolta i suoi neomelodici con le cuffiette!), e che a tratti mi graffia il cuore per ciò che fa riaffiorare.
Ricordo una grandinata che ci coglie di sorpresa, io e Raffaele troppo inesperti per affrontare una situazione così estrema. E Pietro che non perde il controllo, neanche quando stupidamente libero la scotta della trinchetta che prende a frustargli la schiena, come se già non bastassero il vento, i tuoni, la grandine che cade copiosa.
Ricordo albe che sono miracoli, rinascite, catarsi; e tramonti limpidi, tersi, dove cerco con lo sguardo il raggio verde e lo trovo, che si concede, di buon auspicio.
Ricordo la barca che ondeggia in modo insopportabile per la risacca, nel porto di Santa Maria di Leuca, e la scalinata che mi porta al santuario mentre Raffaele mi racconta le sue cose, la sua vita.
Ricordo Roccella Ionica e le barche dei migranti sotto sequestro, barche abbandonate, con gli osteriggi sfondati e i tambucci spalancati, violati; hanno trasportato uomini, donne bambini di cui scorgiamo una scarpa, un maglioncino infeltrito e sporco, un giubbotto in finta pelle calpestato e fradicio. E sempre a Roccella, coppie di anziani che vivono in barca; sono inglesi, tedeschi, scandinavi, con barche brutte, ma affascinanti per come sono attrezzate, per gli alberelli di Natale nei pozzetti o le trappole per i topi, pronte, a fianco alle cime di ormeggio. E sempre a Roccella una rana pescatrice prodigiosa e un carpaccio di ricciola memorabile. E noi tre che ormai ci mescoliamo, insieme al vino che beviamo, al cibo che condividiamo.
Ricordo i gorghi nello Stretto di Messina, l’acqua che sembra ribollire, la nostra concentrazione al massimo, monitorando le imbarcazioni che lo attraversano. La Sicilia a sinistra, vicina e irraggiungibile; lascio che si allontani senza che la nostalgia intacchi l’unicità di quel passaggio. E un tramonto su Messina di una bellezza commovente. E il profilo delle Eolie: Stromboli prima di tutte e poi Panarea, piccola, e Lipari con Salina accanto, e infine Vulcano, la più vicina alla costa. E c’è un’ombra, laggiù: è Filicudi. E la mente vaga, per un attimo, alle mie tante vite precedenti, ai pezzi di pelle rimasti attaccati a Pecorini, a un’altra barca ormeggiata sotto Capo Graziano.
Ricordo Capo Spartivento, che conoscevo solo di fama, ma che non sospettavo mi avrebbe regalato una vista inedita ed emozionante su un Etna innevato.
E poi ricordo Raffaele in una chiesa dagli arredi improbabili, inaccettabilmente kitsch, che fanno risuonare ancora più autentica e sincera la sua preghiera, la sua devozione.
Ricordo noi che raccogliamo arance e limoni dagli alberi lungo la strada e io e Pietro che attraversiamo un lungomare costellato di palme al tramonto mentre Raffaele si sta facendo sistemare le sopracciglia e sta rivendicando kiwi.
E ricordo una traversata notturna con raffiche di 50 nodi e Pietro che resiste, seppur schiaffeggiato dall’acqua a ogni onda, governando la sua barca come se fosse sé stesso, senza paura né stanchezza ma anzi intonando canzoni, non so se per farsi coraggio o per scaricare la tensione. Fatto sta che funziona: io mi sento al sicuro, nonostante le condizioni decisamente estreme e le mani a stringere con forza appigli per non essere sbattuta da un lato all’altro.
Ricordo i turni di notte rispettati rigorosamente, e gli angoli dove mi rifugio per 60 minuti a cercare un po’ di ristoro dal freddo della notte. Ma è un freddo buono, non ostile, che non penetra mai nelle mie ossa. A dirla tutta sono proprio le notti in mezzo al mare a scaldarmi di più, a sciogliermi l’anima, a farmi sentire viva e presente a me stessa. Nessuna stanchezza, nessuna paura, solo incredulità davanti a un cielo così pieno di stelle che non sembra il nostro. Non mi sono mai sentita così forte, e non solo fisicamente. Anche quella sensazione, che porto sempre con me, di non essere all’altezza, di essere inadeguata, piano piano si stempera. Persino la soggezione che provo nei confronti di Pietro, la paura di sbagliare e di deludere le sue aspettative, diminuisce man mano che aumenta il mio stare col mare. Rifletto su questo aspetto: dovrò lavorarci, cercare di lasciarmi alle spalle le mie ansie da prestazione, retaggio di un’educazione troppo vocata al senso del dovere e al sacrificio. Sì, la traversata notturna rappresenta la svolta: ci sono io, completamente. E i miei due compagni d’avventura con me. E con noi solo il mare e il cielo. Le domande senza risposta si spengono, passato e futuro diventano concetti superflui, esiste solo il momento che sto vivendo.
Ricordo gli ormeggi, all’inizio maldestri e poi sempre più sicuri, e la bellezza di sporcarsi le mani
con un corpo morto imbrattato di melma o della pioggia che ti sbatte in faccia mentre sistemi un tendalino o rafforzi una cima per sentirti più sicuro di quanto tu non sia già.
E ricordo una cabina comoda in cui sistemo con ordine le mie cose, come se fosse per sempre, e nella quale non sento mai il bisogno di rifugiarmi per isolarmi da Raffaele e Pietro, ma solo per il riposo, per cambiarmi, per lavorare.
Ricordo il nostro lessico “famigliare”: in pochi giorni molte espressioni sono comprensibili solo a noi tre, con quella complicità che hanno solo le persone che dividono e condividono esperienze: Pedro, troglo, bella figheira, i supermercati Gourmet di Pietro…E la suddivisione dei compiti, che avviene tacitamente: qualcuno cucina, qualcuno sistema, qualcuno prepara, senza mai una tensione o uno sguardo storto.
Ricordo Pietro che non va fuori di testa neanche quando si strappa il fiocco o l’invertitore non funziona o il suo ginocchio quasi si rompe. E noi tre attorno al tavolo a mangiare cose buone e semplici, a ridere, a cercare la cioccolata o un goccio di whisky per completare serate già perfette. E ancora noi a confessarci i piccoli e grandi dolori che ci portiamo dentro, ma con leggerezza, senza toni disperati.
Ora sono in aeroporto, circondata da decine di persone, ma infinitamente sola: loro non sono Raffaele, con il suo buon cuore e la sua anima bella, e non sono Pietro, con la sua passione e la sua forza. E io? Io comincio a sentire gli effetti del mal di terra. Chi non è mai stato per mare a lungo non sa cosa sia e io non saprei come spiegarlo: è una specie di nausea, ma non è una nausea; è come avere le vertigini, ma non sono vertigini; è una sensazione di sbandamento, ma in realtà non si sbanda. Il mal di terra è quello spaesamento che ti prende quando lasci il mare; e io non so descriverla in altro modo che con una parola: nostalgia.
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